Non era lui che sua madre chiamava. «Tobias!», stava chiamando invece, Tobias che giocava a nascondino coi figli dei vicini e che però non la sentiva o non voleva sentirla, e non rispondeva.
Difatti Tobias era appena annegato. Comincia col trauma che determina il corso della vita del protagonista questo bel romanzo che, se dovessi definirlo con una parola sola, chiamerei malinconico. A parte il prologo e il finale, il racconto si divide tra la Svizzera del 1933 e la New York del 1949. Il protagonista è il più popolare attore di lingua tedesca dell'epoca, Lionel Kupfer (personaggio inventato che si muove tra altri invece realmente esistiti, non ultimo Luchino Visconti) ed ha due segreti che corrispondono ad altrettanti gravi difetti per l'epoca: è ebreo e omosessuale. Mentre trascorre una vacanza in un albergo di montagna, l'ascesa al potere di Hitler pone fine alla sua carriera; trasferitosi in America, non ottiene che ruoli da comparsa, trascorrendo il tempo perso nei ricordi della sua brillante vita precedente e dei suoi amanti. La malinconia è appunto il sentimento che prevale, ma lo fa fin da subito, quando il mondo non è ancora precipitato nel caos, quasi come se per Lionel la felicità non fosse un'opzione realistica. Il finale non è tragico, malgrado le premesse, lascia anzi aperto uno spiraglio per i lettori più ottimisti. Il tutto mi è piaciuto molto perchè apprezzo questo stile, evocativo ma non gridato, costellato di eventi tristi ma non melodrammatico. Molto misurato, insomma, come una ricetta dagli ingredienti perfettamente dosati.
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